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  • ‘Anthium’ iL ‘BeLLoNe’ DeLL’aGRoPoNTiNo Lazio

    Il Bellone

    L’uva pantastica ’ ed il vino del mare di Roma

    L’Anthium di Casale del Giglio è un vino bianco Cacchione Nettuno DOP ottenuto dalla macerazione delle uve intere a bassa temperatura, in modo da mantenere inalterate le qualità dell’uva Cacchione. Il risultato è un vino dal colore giallo paglierino con bei riflessi dorati e un aroma complesso di frutti maturi e con sentori floreali. Al gusto è un vino avvolgente, equilibrato, con una ottima persistenza, fresco, armonico e di buon corpo.

    Cacchione Pantastico Antica Roma“Uva pantastica, tutta sugo e mosto”. E’ questa breve ma intensa descrizione una delle tracce storiche più antiche del Cacchione, il vino del mare di Roma, prodotto in quella che allora era l’Antium romana, colonia marittima dell’impero, di cui l’attuale Nettuno è erede. A parlarne in questi termini enfatici è Plinio il Giovane, scrittore e politico romano. “Uva pantastica”, da alcuni detta anche uva pane, perché amata dai contadini del luogo che la consumavano appunto con il pane. Ma in realtà dall’uvaggio Cacchione si traeva un vino apprezzato anche dai ricchi, che probabilmente scorreva abbondante sulle tavole del celebre Cicerone, che di Antium era originario. Antium fu una delle prime colonie romane, annessa definitivamente nel 338 a.C., dopo lunghe e sanguinose lotte. Quel promontorio, però, seppe trasformarsi da vinto a vincitore e conquistò i romani con le bellezze e le ricchezze della sua terra, soprattutto con il gusto del cibo e del vino. Il litorale non era affatto provincia dell’Impero, ma parte del suo centro. Tanto da dare i natali, oltre al già citato Marco Tullio Cicerone, anche agli imperatori Caligola e Nerone, che vi dimoravano spesso, circondati dal fasto delle loro Ville Imperiali. Di li passavano di frequente anche Lucullo, Mecenate e Augusto: del resto la leggenda vuole che quelle fossero le “rive omeriche”, dove approdò Enea, fuggiasco da Troia, capostipite della discendenza che fondò Roma. Durante i fasti dell’Impero, Antium, e poi Nettuno, divennero patria dell’ – Otium-  della classe patrizia, da non tradurre come banale ozio ma come tempo dedicato al vero godimento della vita e delle sue virtù. Nelle sfarzose abitazioni che popolavano la zona si moltiplicavano le feste ed i banchetti, che quella terra animava in maniera unica, fornendoli di cibi e bevande squisite. Era proprio il vino locale, sia bianco che rosso, il fiore all’occhiello di quelle terre, talmente buono da venire anche offerto in dono alla dea Fortuna, per ingraziarsela.

    Nel 1881, nel Bollettino Ampelografico il Bellone- Cacchione  viene descritto come avente caratteristiche simili ai Belli, una serie di vitigni molto diffusi all’epoca, da cui ha certamente preso il nome. Esistono comunque molti sinonimi: oltre al Cacchione, si ha Pampanaro, Bellobuono, Albanese, Zinnavacca, Arciprete e Pacioccone. Il Bellone è iscritto al Registro Nazionale delle Varietà della Vite dal 1970.

    Viene prodotto nei  Comuni di Nettuno ed Anzio, un vigneto di oltre 60 anni: l’età delle viti, l’influenza diretta del mare, i terreni marini, fanno sì che questa piccola zona sia unica per la sua produzione. La costante brezza marina contribuisce a raggiungere la piena maturazione: i suoi grappoli maturano nelle prime settimane di Ottobre, periodo in cui si effettua la vendemmia. Il Bellone è vinificato raramente in purezza, soprattutto nella zona del Nettuno DOC, mentre si presta particolarmente ad uvaggi insieme ad altre varietà autoctone laziali nella zona dei Colli Albani, anche in DOCG Frascati Superiore DOCG. L’azienda che rappresenta al meglio le caratteristiche di un Bellone in purezza è sicuramente Casale del Giglio. Dotato di grande piacevolezza è indubbiamente un capolavoro di vino.

    https://www.winezz.it/prodotto/casale-del-giglio-anthium-il-bellone-dellagropontino-lazio-igt-2021-vitigno-autoctono-lazio/
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  • Le Visciole e i suoi antichi sapori

    Il vino di Visciole è una bevanda alcolica (circa 14°) a base di visciole, una varietà di ciliegie acide (Prunus cerasus) simili alle amarene ma più dolci e di colore più scuro. Il prodotto, tipicamente marchigiano, è un vino dolce da degustazione o da dessert dalla fragranza di visciola. Sono due le zone di produzione in Italia più importanti: l’entroterra della provincia di Pesaro e Urbino, in particolare nei comuni di Cantiano, Pergola, Sant’Angelo in Vado e Sassocorvaro, e la Vallesina e altre zone della provincia di Ancona, in particolare San Paolo di Jesi dove dal 2010 si svolge una sagra paesana dedicata a questa bevanda.


    Le Visciole al sole sono una ricetta tradizionale marchigiana che ha il sapore intenso delle cose semplici. L’esempio dell’equilibrio di una pratica unica, fatta di pazienza e passione. Spesso si confondono con le più conosciute amarene o con le ciliegie, ma pur essendo “sorellastre”, differisco per alcuni aspetti. I ciliegi si distinguono dalla dolcezza o acidità dei loro frutti. Ci sono i Prunusavium che producono frutti dal sapore dolce e i Prunuscerasus che, invece, producono frutti dall’intenso gusto acidulo. Il Visciolo appartiene alla famiglia dei Prunuscerasus. È una pianta selvatica, forte e generosa, un arbusto ‘autofertile’ capace di adattarsi ai climi più difficili. Adornato da fiori meravigliosi, possiede l’attitudine a una fruttificazione abbondante. All’interno della famiglia dei cerasus si distinguono tre varietà e quindi tre tipi distinti di frutto:
    – Le Amarene. Hanno una forma ovale, con polpa di colore rosso chiaro e dal sapore leggermente acido. Delle tre sono le più adatte al consumo fresco.
    – Le Marasche. Di forma piccola, con polpa di colore rosso scuro e dal sapore molto acido e amaro. Tipico il loro impiego per preparare il Maraschino.
    – Le Visciole. La loro forma è tonda, con una polpa di colore rosso intenso dal sapore dolce e da un retrogusto acidulo. Sono le più adatte nella produzione di marmellate, sciroppi e liquori. Sono meno dolci delle ciliegie, ma sono frutti dal gusto raro e coinvolgente, capaci di dare vita a prodotti di cui è difficile privarsi, dopo averli assaggiati. Ciò che rende speciali le Visciole non è solo il loro aspetto e il loro gusto, ma le proprietà benefiche che un frutto così piccolo sa contenere. Le visciole differiscono dalle ciliegie non solo in forma e gusto, ma anche per le loro singolari proprietà organolettiche e nutrizionali: La buccia è ricca di vitamina C, sostanza indispensabile a molte funzioni dell’organismo.; contengono una buona quantità di minerali come potassio, magnesio, fosforo e calcio e sono tra i frutti con la più alta percentuale di melatonina in natura.
    L’origine del Visciolo è avvolto tra mistero e leggenda, ma una cosa è sicura, ha origine in quel di Cantiano. Questo piccolo paese medievale rappresenta la culla di una delle varietà di Visciole più apprezzate. Una varietà iscritta nell’elenco ufficiale dei prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Marche. L’alberello delle Visciole è di origine orientale, come tutti i ciliegi. È probabile sia giunto in Italia nell’epoca repubblicana, tra il 68 e il 71 a.c., grazie a Lucio Licinio Lucullo console e generale romano. Proprio nel Medioevo questo antico frutto selvatico veniva raccolto e utilizzato per la produzione di riduzioni e sciroppi tonificanti, ricchi di sostanze energizzanti. Purtroppo, i costi elevati per la raccolta, che deve essere effettuata a mano, e le tempistiche necessarie della fase improduttiva, hanno reso difficile la diffusione delle Visciole. Eppure non sono mancati i periodi d’oro e gli estimatori. Agli inizi del novecento, questa varietà di amarene era apprezzataanche dalla Real Casa Savoia, come testimonia un documento in cui Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte ne ordina, con urgenza, un gran quantitativo. Oggi, come allora, gli arbusti crescono liberi tra i prati e le radure incolte, lungo la via romana Flaminia. Le Visciole di Cantiano sono considerate le migliori amarene d’Italia e l’unico modo per poter salvaguardare la loro tradizione risiede nelle mani esperte delle famiglie del luogo.


    Vino di Visciole

    Il vino di Visciole è un prodotto particolare, una vera delizia per tutti gli amanti dei vini dolci. È difficile da reperire perché non viene prodotto in grandissime quantità, ma rappresenta una eccellenza di qualità e genuinità, che soddisfa gli amanti più esigenti. È un ottimo vino da meditazione che nasce dal sapiente connubio di uve nere, zucchero e sciroppo di Visciole. Il suo sapore è asciutto e ha un colore rosso rubino tendente al granato: il suo profumo intenso di amarena con i sentori di cacao e nocciole tostate è intrigante. Come le ciliegie, anche le visciole non maturano più una volta raccolte, quindi devono essere colte dalla pianta a piena maturazione, mantenendo i frutti attaccati al loro peduncolo. Il metodo di raccolta e produzione del vino di visciole è interamente regolato da un disciplinare regionale, a garanzia del consumatore e nell’ottica di preservarne la tradizione, questo perché il lungo procedimento e la particolare lavorazione ne fanno una bevanda unica e preziosa. Infatti, per la limitata quantità prodotta, il vino di visciole è diventato Presidio Slow Food. La preparazione di vino e visciole inizia da una fase che richiede grande pazienza, ovvero quello della macerazione delle visciole al sole. I frutti vengono raccolti, rigorosamente a mano, tra la fine di giugno e i primi di luglio. Le visciole appena colte sono subito poste a macerare sotto il sole, in appositi contenitori di vetro chiusi ermeticamente in cui viene aggiunto lo zucchero: grazie alle alte temperature, lo zucchero si scioglie, e le visciole macerano nel loro succo, fino a quando lo sciroppo diventa di un bel colore intenso. Il prezioso liquido ottenuto da questo lungo procedimento, in autunno viene aggiunto al mosto di uva delle vigne e da qui in avanti segue le stesse procedure enologiche dei normali vini, fino all’imbottigliamento. Le uve sono quelle tipiche del territorio marchigiano, come Lacrima di Morro, Sangiovese e Montepulciano. Queste uve rendono il prodotto finale caratteristico per il suo colore rosso rubino con riflessi violacei, e per gli intensi profumi di frutti rossi, deliziosi e gradevoli al palato; si presenta non troppo dolce anzi con un retrogusto amarognolo. Un vino da assaporare e gustare in compagnia, servito ad una temperatura di 10-11° in piccoli calici. Indicato con la pasticceria secca o con i dolci tipici delle Marche, come il tradizionale ciambellone marchigiano, si abbina a formaggi Erborinati o a ricottine; sono ottime per realizzare dolci al cucchiaio, come panna cotta, bavarese, budini, torte al cioccolato, crostate e cheesecake.

    https://www.winezz.it/prodotto/velenosi-vini-di-ascoli-piceno-querciantica-vino-e-visciole-lacrima-di-morro-dalba-sciroppo-di-visciole/
  • Il Nero di Troia di Castel Del Monte

    Uve Nero Di Troia

    Autoctono della Puglia, il Vino Nero di Troia, di provenienza dall’Uva di Troia, deve il suo nome, da un lato al colore rubino intenso, che molto spesso può ingannare sembrando nero, e dall’altro al suo legame con la città di Troia.

    Alcuni dicono sia legato alla città di Troia, altri a Diomede, amico di Ulisse, che reduce e vittorioso dalla guerra di Troia navigò lungo il Mar Adriatico sbarcando sulle rive del fiume Ofanto e portando con sé tralci di vite che dettero origine al Nero di Troia. La storia racconta che l’Uva di Troia era originaria dell’Asia Minore, Troia, e importata in Puglia dagli Antichi Greci. La prima descrizione del Nero di Troia risale al 1877, conosciuto, nel barese, come Uva di ‘Troja’ o di Canosa. Una varietà robusta, resistente alla siccità ed abbastanza produttiva, a ceppo basso, isolato e in riga, un sistema per i romani humilis sine adminiculo e che oggi è infatti nota col nome di vigna a sistema latino. E’ coltivato nel Nord-Ovest della regione ai confini tra le provincie di Bari e Foggia. È una delle varietà contemplate dal disciplinare di produzione del Castel del Monte DOC e la sua origine in passato è stata al centro di alcune ipotesi spesso fantasiose. Tralasciando miti e leggende, si narra che i marchesi D’Avalos, di origine spagnola si insediarono nella zona sin dalla prima metà del 1500. Fu appunto Don Alfonso D’Avalos, governatore della giurisdizione di Troia, che impiantò i primi vigneti con varietà provenienti dalla Spagna.

    La zona di coltivazione prediletta non è più la città di Troia, in provincia di Foggia, ma l’intera provincia di Barletta, Andria e Trani. Matura solitamente a inizio ottobre, presenta la buccia nera e spessa e la polpa dolce. Il vino che ne deriva ha una buona alcolicità e intensità. Si differenzia dalle altre principali varietà a bacca nera pugliesi, che maturano invece in maniera precoce, e viene quindi spesso definito vino tardivo. Nel bicchiere il vino per essere nero è nero e così tiene fede al vitigno di pertinenza: il suo effetto cromatico è proprio scuro profondo e, ricorda proprio il colore del melograno. ottili venature prugnose e ciliegiose ricamano un bouquet intenso e pervasivo. E’ un distillato di frutta matura che inebria la mente, intrecciato ad essenze cioccolatose, tabaccose, vanigliate e resinose. I tannini sono superbi e penetranti, ma già domati ed addolciti. Il vino ha corpo, struttura ed equilibrio e regala piacevoli sensazioni di piccoli frutti rossi, liquirizia, noce moscata e sfumature erbacee. 

    Il Castel del Monte Nero di Troia DOCG è sicuramente l’espressione più compiuta di questo vitigno.

  • Il Passito di Pantelleria un vino leggermente liquoroso, dolce e aromatico..

    Circondata da un’aura quasi magica, ancestrale, la produzione del Passito nell’isola si fa risalire a oltre duemila anni fa, quando nel 200 a.C. il generale cartaginese Magone descriveva la produzione della forma primitiva dell’oro di Pantelleria.


    Il suo segreto è racchiuso in 82 chilometri quadrati, la grandezza dell’isola di Pantelleria, un fazzoletto di terra sospeso nel Mar Mediterraneo, tra la Sicilia e la costa dell’Africa. Nel 2014, l’Unesco ha riconosciuto la Vite ad Alberello di Pantelleria tra i Beni immateriali dell’umanità.

    Il paesaggio di Pantelleria è profondamente modellato dalla coltivazione della vite e l’uomo qui ha saputo integrare natura e prodotto. Il tipo di coltura è unico e si chiama ad “alberello basso”: le piantine sono in una conca, una sorta di grande buca nel terreno, sotto il livello del mare per proteggerle dallo scirocco che soffia sull’isola, dalla salsedine e trattenere l’umidità. Per tutti questi motivi, la viticoltura qui si è meritata l’aggettivo di eroica. Ogni passaggio avviene a mano perché i terrazzamenti sono spesso scoscesi e il lavoro è tre volte superiore rispetto a quello richiesto da un vigneto su terraferma. Un gioiello incastonato nelle acque del Mar Mediterraneo tra la Sicilia e le coste della Tunisia, Pantelleria è un’isola meravigliosa che saprà conquistarvi con le sue bellezze naturali e le sue atmosfere suggestive e portatrici di una affascinante cultura arabeggiante. Conosciuta anche come la Perla Nera del Mediterraneo per le colate laviche che caratterizzano il paesaggio: l’isola di Pantelleria è infatti di origine vulcanica, sebbene oggigiorno i fenomeni vulcanici sono ridotti a acque calde e soffioni di vapore, e l’ultima eruzione risalga al XIX secolo.
    l disciplinare per la produzione del Passito di Pantelleria è molto rigido: prevede infatti che tutte le fasi, dalla vigna fino all’imbottigliamento, avvengano sull’isola. Le uve sono esclusivamente della varietà Zibibbo e parte dei grappoli vengono lasciati appassire sulla pianta oppure, dopo la raccolta, posti a essiccare nello “stinnituri” per una ventina di giorni, fino a quando il peso dell’uva, si riduce al 60% . E’ proprio questo passaggio che ha dato origine al nome del vino. Uno dei principali produttori di è sicuramente Pellegrino: per la produzione del Passito di Pantelleria si utilizzano esclusivamente uve della varietà Zibibbo. La vendemmia, a settembre trova la terra arida e la produzione è scarsa: solo un chilo e mezzo per pianta, per una produzione massima consentita di 10 quintali per ettaro. La produzione media è di 70-120 quintali per ettaro. Ecco perchè “eroica”. Il suo affinamento dura diversi mesi, fino all’estate seguente. Il Passito di Pantelleria, per legge, non può essere immesso al consumo prima del 1° luglio dell’anno successivo alla raccolta delle uve.

    Ha un bel colore giallo dorato dai riflessi ambrati, con un profumo fruttato ed aromatico che ricorda i fichi secchi e la frutta matura, arancia candita, dattero, miele, uva passa e mirto e non manca un senso di lieve piccantezza. Al palato è cremoso, imperlato dalla fine dolcezza della confettura e del miele, e rinfrescato dalla nota agrumata. Il modo migliore per gustarlo è freddo, alla temperatura di 10-12°C. Il Passito di Pantelleria è un vino leggermente liquoroso, dolce e aromatico, eccellente con la piccola pasticceria e biscottini a base di pasta di mandorle e con torte e crostate, così come con la grande pasticceria siciliana. Contrasta piacevolmente con dolci a base di confetture acidule come ribes, frutti di bosco o marmellate di agrumi. Ama i formaggi erborinati o piccanti : un grande vino da ‘meditazione’ e da sorseggiare.

  • “Caudium” Benevento Aglianico IGT Masseria Frattasi 2020

    Un pezzo di storia campana, risalente al lontano 1576, è quello della Masseria Frattasi. Siamo ai piedi del monte Taburno, a Montesarchio, in provincia di Benevento per l’esattezza: è qui dove attorno a quella che è l’imponente masseria settecentesca costruita in pietra calcarea bianca, si snodano i filari principalmente di falanghina e aglianico, ma anche di coda di volpe, greco e fiano, e infine di cabernet sauvignon se si considerano le varietà internazionali. Coltivati ad altitudini variabili, che partono dai 380 metri sul livello del mare fino ad arrivare ai quasi ai mille metri, i vigneti di proprietà aziendale coprono attualmente una superficie di circa venti ettari, e sono condotti secondo le norme dell’agricoltura biodinamica, per cui ogni pratica è totalmente sostenibile e a basso impatto ambientale. In una zona altamente vocata alla viticoltura, dove i venti freddi provenienti dalle montagne si uniscono alle brezze marine che soffiano dal Tirreno, ancora si possono trovare piante allevate con il sistema degli etruschi, che usavano gli alberi come tutori per le viti. Da sempre di proprietà della famiglia Cecere Clemente, con Beniamino e Pasquale che reggono oggi le redini aziendali, è in questo contesto che da quasi cinque secoli opera ininterrottamente la Masseria Frattasi. In cantina, potendo usufruire di locali che superano i mille metri quadrati, si incontrano le più moderne tecnologie enologiche, sempre applicate nel massimo rispetto di quelle che sono le più antiche tradizioni territoriali.

    Con circa 180mila bottiglie prodotte annualmente, partendo da vini come il “Kapnios” e il “Caudium”, fino ad arrivare allo “Iovi Tonant” e al “Donnalaura”, passando per gli Spumanti e per i Passiti, è indiscutibile quello che è il grande merito della cantina “Masseria Frattasi”, che ha avuto la caparbietà di valorizzare e promuovere i vitigni e i vini del territorio, tutti frutto di quello che è il più profondo legame che l’uomo possa instaurare con le proprie terre natie e con le proprie origini.

    Caudium era la capitale del Sannio, con un santuario che occupa ancora l’attuale acropoli fortificata con un castello dai longobardi. La coltivazione della vite risale al periodo cretese, circa 3500 anni fa. I terreni sono vari, calcare e marmi, arenaria e marne, argilla e materiali lapidei. L’aglianico è il più antico vitigno del mondo greco, il rosso per eccellenza, usato per i migliori vini greco-romani. Il Beneventano Aglianico IGT Caudium ha origine da una vendemmia eseguita solo ed esclusivamente a mano, nella prima decade del mese di novembre. Dopo la raccolta l’uva viene trasferita in cantina, dove subisce un meticoloso processo di macerazione; successivamente il vino matura per alcuni mesi in barrique di rovere francese, trascorsi i quali viene imbottigliato. Prima di essere immesso in commercio matura ancora in vetro per qualche mese. Il prodotto finito è un rosso polposo, corposo, sapido e consistente. Un’etichetta avvolgente che emerge per la sua lunga persistenza. Vino già pronto, con note giovanili in evidenza, che può evolversi e migliorare nel tempo, in cantina.


    Colore rosso rubino carico, il suo profumo è intenso e si esprime con sentori di more selvatiche, mirtilli e confettura di prugne rosse. Al palato è di buon corpo, denso e avvolgente e Persistente. Ottimo in abbinamento ad arrosti e grigliate di carne rossa, si sposa bene anche con selvaggina e primi piatti al ragù. Pronto per essere degustato subito proponendo una impressionante finezza aromatica e può evolvere bene se conservato correttamente in cantina. https://www.winezz.it/prodotto/masseria-frattasi-caudium-aglianico-beneventano-igp-2020/

  • L’Olio Extravergine DOP del Cilento: orgoglio della Campania.

    L’Olio del Cilento è uno dei prodotti tipici cilentani più apprezzati. Le sue origini risalgono alla Magna Grecia, e la sue peculiarità lo rendono particolarmente ricercato; ha origine con l’insediamento dei Focei nell’antica Elea, l’attuale Velia. I Focei erano dei coloni greci e le prime testimonianze archeobotaniche fanno risalire la presenza delle piante di oliva nel Cilento già a partire dal IV secolo a.c.. Furono loro, infatti, a introdurre la Pisciottana, forse la più antica varietà di olivo del Cilento. La Pisciottana, oltre ad essere la più antica del Cilento, è la varietà d’ulivo più grande conosciuta ad oggi. I suoi esemplari hanno dei fusti molto larghi e sono presenti diverse piante millenarie nel Cilento. La Pisciottana è una pianta che resiste molto bene ai venti salmastri del Cilento ed è molto produttiva anche in un territorio soleggiato come il Cilento, clima che conferisce all’olio cilentano le sue tipiche peculiarità.

    Per essere certificato DOP l’olio del Cilento deve superare una serie di esami molto stringenti. L’olio DOP del Cilento, per essere considerato tale deve essere prodotto per 85% da una o più delle seguenti varietà: Pisciottana, Salella, Leccino, Rotondella, Ogliarella e Frantoio. L’altro 15% deve essere comunque di specie autoctone. A livello agronomico, particolare cura è posta durante le fasi della raccolta, del trasporto e della conservazione delle olive. Per essere ammesse alla produzione di olio DOP le olive devono essere raccolte rigorosamente a mano; è autorizzato l’ausilio di mezzi agevolatori meccanici, come scuotitori e pettini vibranti; le reti sono ammesse esclusivamente per agevolare le operazioni di raccolta, che deve essere effettuata entro il 31 dicembre di ogni anno. La produzione massima di olive ad ettaro è di 110 quintali, mentre la resa in olio massima è del 22%. Le olive vanno molite entro 48 ore dalla raccolta.

    Si presenta giallo paglierino, tendente al verde, ed è possibile trovarlo sia limpido che velato. All’esame olfattivo ha un leggero sentore di fruttato e il gusto è tenue e delicato, ricorda l’oliva fresca. L’Olio cilentano è tendenzialmente dolce e presenta solo percettibili note amare e piccanti: deve avere un’acidità inferiore al valore di 0,70%. L’olio può essere utilizzato su piatti consistenti, come i tipici piatti cilentani, sui legumi, ad esempio nella lagane e ceci. In generale è ottimo per condire anche le insalate, ma io lo amo sul pane tostato nel camino a legna, un’esperienza unica. La notevole presenza di note aromatiche fa prediligere l’uso di quest’olio su piatti di una certa consistenza, tipici dell’area di origine, come grigliate di pesce, insalate selvatiche, verdure bollite, legumi e primi piatti in genere. L’olio “Cilento” DOP è il frutto dell’armonizzazione delle più moderne tecnologie di lavorazione con una tradizione millenaria.

    La Tenuta Cobellis produce nel proprio frantoio aziendale mediamente 500 quintali all’anno di “Rùine”, Olio Extravergine d’oliva Cilento Dop la cui alta qualità e le sue straordinarie caratteristiche si devono essenzialmente all’incontaminata natura del luogo: ricchissimo di antiossidanti, dovuti alla perfetta integrazione degli ulivi con l’ambiente collinare del parco, conserva sia i caldi sapori solari che gli intensi profumi della verdissima biodiversità locale. Dopo la frangitura a freddo eseguita con le più moderne tecniche d’estrazione, si presenta color giallo paglierino con buona vivacità e intensità, al palato rivela un gusto tenue e delicato d’oliva fresca e dolce con piacevoli note appena percettibili d’amaro piccante. Il suo gusto e il suo profumo si esaltano nella cucina fredda e si intensificano gradevolmente a caldo nelle zuppe, soprattutto a base di legumi. Tenuta Cobellis Olio Extravergine di Oliva Cilento DOP 100% Italiano 75cl – Winezz: Enoteca On Line | I migliori vini del Sud

  • O Per’e Palummo

    Il vino amato da Plinio il Vecchio

    La storia del piedirosso, detto anche per ‘e palummo per via del graspo a zampetta di piccione (palummo), è davvero singolare: nel giro di pochi anni è passato dall’essere il simbolo di vino da dimenticare, acetoso al naso e tenuto in piedi solo dall’acidità, a nuovo modello di rosso da inseguire e c’è perfino chi lo paragona al pinot nero.


    I primi coloni greci compresero le enormi potenzialità dei terreni attorno al Vesuvio, resi fertili dalle perfette condizioni climatiche e dalla composizione prettamente vulcanica del suolo. Da allora la coltivazione della vite è stata punto fermo e trainante dell’economia campana, sopravvivendo e portando ricchezza nei secoli a tutti i popoli che vi hanno abitato. Gli imperatori e gli alti ranghi romani avevano una predilezione per i vini campani, come attestano diversi autori e numerosi ritrovamenti archeologici. C’è un volume, vecchio di duemila anni, che più di altri ci aiuta a fare luce sulla storia dell’Italia, dei suoi territori e dell’oro liquido che l’ha portata ai vertici del mondo: è il Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, storico romano vissuto nel primo secolo dell’Era imperiale e morto durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. A lui si deve una efficace descrizione dell’uva Palombina Nera e della simile Colombina, che oggi vengono considerate come antenate, o addirittura la stessa, del Piedirosso. Omologa citazione della Palombina risale poi a degli scritti del Cinquecento di Herrera – Sederini, secondo il Carlucci. L’uso del Piedirosso si consolida comunque tra Ottocento e Novecento, grazie alla sua ottima resistenza alle malattie delle viti, che riesce a sopperire alla crisi produttiva di fine XIX secolo.


    ll suo territorio di elezione, benchè diffuso in tutta la Campania, è la provincia di Napoli dove risulta il vitigno più piantato e dove raggiunge le massime espressioni qualitative . Resta infatti insostituibile nelle Doc Campi Flegrei, Ischia (Rosso e Per’ e Palummo), Capri, Lacryma Christi del Vesuvio e Penisola Sorrentina Rosso. Lo possiamo chiamare “vino vulcanico” perché lo si produce alle pendici del Vesuvio e dei Campi Flegrei, quei territori dalla storia geologica ed eruttiva particolarmente forte e dinamica. Grandi nutrimenti, quelli dei terreni vulcanici, che si espandono in una delle regioni più scenografiche d’Italia, restituendo un vino eccellente, proprio come i territori dai quali nascono le sue uve; in queste zone matura abbastanza presto, tra la fine di settembre e la metà di ottobre. La produzione dei vini da bacca Piedirosso richiede, spesso, l’impiego in purezza di questo vino, come accade per il Piedirosso Pompeiano IGT, che lo impiega al 100% del suo valore. Nel Campi Flegrei si impiega tra il 90% e il 100%, percentuali che scendono al 40-60% nel Costa d’Amalfi Rosso, dove si impiegano anche Aglianico e Schioppettino. Il Piedirosso è complicato in vigna come in cantina, si è sempre al limite tra l’odore cattivo e le sensazioni olfattive accattivanti di geranio e frutta rossa. Richiede attenzione e molta competenza. E’ un vino che si presta molto bene all’invecchiamento ma non disdegna note piacevoli fresche e profumate di ciliegia nei vini giovani, anche rosati: vini ricchi di corpo e di tannini, dalla caratteristica nota floreale di violetta e di erbe aromatiche. Generalmente fornisce vini con un bel colore rubino. La gamma olfattiva varia dai frutti rossi come prugne e ciliege dei vini giovani fino alle sfumature terziarie degli invecchiati, con note di caffè, tabacco e speziature.


    ABBINAMENTO CIBO-VINO

    Il Piedirosso si presta a momenti importanti: è un rosso che chiede e dà attenzioni, ottimo in un abbinamento cibo-vino di rilievo. Il Piedirosso Pompeiano, ad esempio, presta il fianco ad essere servito insieme al filetto alla Wellington, un nobile pezzo di carne avvolto in crema di funghi e protetto da uno scrigno di pasta sfoglia. Dà il meglio di sé con le carni, preferibilmente rosse: una Fiorentina, una braciata con gli amici o anche una bistecca impreziosita da qualche fiocco di sale Maldon, rigorosamente cotta al sangue. Ottimo in ogni caso anche con la selvaggina, con carni di maiale e con dei formaggi ampiamente stagionati, magari un provolone del Monaco. Il Piedirosso è un degno rappresentante in rosso anche a tavola, superbo accompagnamento della cucina campana di terra, quella più vera e antica, come carne di maiale, salsicce alla brace o al sugo, salumi e formaggi stagionati, piuttosto che arrosti e rollè di vitello.


    CANTINE ANTONIO MAZZELLA, Ischia (NA)
    Unendo slancio tecnico e valori tradizionali Nicola Mazzella, aiutato dalla sorella Vera, ha effettuato in cantina una profonda rivoluzione generazionale. Nel versante sud dell’isola è doveroso parlare di viticoltura eroica: piccoli lembi di terra, strettissimi terrazzamenti, pendenze da capogiro, nessun muretto a secco, con l’inerbimento a contenere il dilavamento. E’ qui che nasce Il Terrazze di Levante, prodotto con Piedirosso e piccola aggiunta di Aglianico. Il suo nome lo si deve all’esposizione verso levante dove i primi raggi del sole mattutino maturano i generosi grappoli. Ben calibrato e armonico induce ad una beva piacevole e incalzante.

    https://www.winezz.it/prodotto/antonio-mazzella-terrazze-di-levante-epomeo-rosso-igt/
  • L’Italia continua a primeggiare nel mondo: in cima tra i produttori al mondo di Spumanti, Ferrari miglior produttore in assoluto.

    58 ori tricolori (dove svetta il TrentoDoc), di cui 12 per la cantina della famiglia Lunelli in “The Champagne & Sparkling Wine World Championships”.
    Tra Trentodoc, Franciacorta, ma anche Prosecco Docg di Conegliano e Valdobbiadene, passando per il mondo Lambrusco e non solo, l’Italia è la terra più nobile del mondo per la spumantistica di qualità. Più della Francia della Champagne. E Ferrari, cantina di riferimento delle “bollicine di montagna” del Trentodoc, è ancora una volta il miglior produttore di spumanti del mondo. A dirlo i risultati della “The Champagne & Sparkling Wine World Championships 2021”, il “mondiale delle bollicine”, creato da Tom Stevenson. Con l’Italia è Ferrari a trionfare in un’edizione da record: 139 in tutto le medaglie d’oro, di cui 58 per l’Italia (22 grazie al Trentodoc, il terroir più premiato, seguito dalla Franciacorta con 15 ed, a poche lunghezze, dal Prosecco Docg, con 10), e 12 proprio grazie alla cantina della famiglia Lunelli, la più premiata in assoluto. Il Belpaese ha superato la Francia, sia sul fronte degli ori (52 per i transalpini), surclassandola anche tra gli argenti (129 contro 50, su un totale di 268). Tra i 19 Paesi con vini premiati (tra cui la new entry Giappone, ma anche India, Argentina, Brasile, Bulgaria, Canada, Germania, Nuova Zelanda, Portogallo, Romania, Russia, Sudafrica, Spagna), il Regno Unito si conferma sul podio, seguito, però, da vicino da Australia e Stati Uniti. Trentodoc è il metodo classico italiano più premiato, con 72 medaglie (22 ori e 50 argenti), e sono ben 26 le case spumantistiche associate all’Istituto Trentodoc ad essere state premiate.

    Luogo in cui la cultura della vite si intreccia con la storia e la montagna, il 70% del territorio del Trentino è posto sopra i 1.000 metri di quota, il 20% sopra i 2000 e son ben 94 le vette che superano i 3.000 metri. È la montagna che influenza il clima e la vita delle vigne anche nelle zone più basse del Trentino, con grandi escursioni termiche fra giorno e notte, indispensabili per permettere alle uve di raggiungere l’ottimale grado di acidità per la produzione del metodo classico. Trentodoc è espressione di un territorio unico per condizioni ambientali e varietà climatica, il Trentino, e questa regione è stata riconosciuta, secondo il magazine newyorkese “Wine Enthusiast”, come la migliore area vitivinicola a livello internazionale ricevendo il titolo “Wine Region of the Year 2020”. Coltivato in altitudine fino a 900 metri sul livello del mare, Trentodoc è stato il primo metodo classico a ottenere la Doc in Italia e fra i primi al mondo. Oggi sono 61 le case spumantistiche trentine, grandi e piccole realtà, associate all’Istituto Trento Doc, per un totale di 188 etichette. Spicca in cima a tutte sicuramente il Trento Doc della famiglia Lunelli. Il Ferrari Perlè Zero è il trento DOC a dosaggio zero che esprime l’essenza dello Chardonnay della azienda Ferrari . Un ottimo multivintage a dosaggio zero, ottenuto ovviamente con il metodo classico: un mosaico di millesimi che porta all’estremo la raffinata arte della creazione delle cuvée dove l’acciaio esalta il frutto e l’eleganza aromatica dello Chardonnay, il legno dona struttura e ricchezza gustativa, mentre il vetro conferisce l’espressività e profondità che rendono questo Trentodoc unico e irresistibile. Un vero simbolo per gli appassionati di bollicine Trento DOC: riposa almeno sei anni sui lieviti, una cuvée millesimata che sintetizza la più profonda essenza dello chardonnay di alta quota, il quale viene gestito in parte in acciaio, per valorizzare il lato fruttato e risaltare l’eleganza aromatica delle uve, e in parte in legno, per conferire grande struttura e ricchezza, pienezza al sorso. Il lungo riposo in bottiglia, infine, completa il tutto aggiungendo profondità ed equilibrio per una bollicina che si manifesta l’ennesimo successo di Ferrari.

    https://www.winezz.it/prodotto/ferrari-perle-zero-millesimato-brut-trento-doc-pas-dose-2015/

  • …..assicurati che sia Gragnano! Tu lo assaggi; se è frizzante, lo prendi, se no…” Totò “-…desisto!”

    Pasquale –“ Un po’ di frutta secca e poi ti fai dare pure cinque lire in contanti e vai dirimpetto dal vinaio a nome mio, di Don Pasquale il fotografo, e ti fai dare due litri di Gragnano frizzante…..assicurati che sia Gragnano! Tu lo assaggi; se è frizzante, lo prendi, se no…” Totò “-…desisto!”
    Chi non ricorda l’esilarante scena di Miseria e Nobiltà?
    Il Gragnano è sempre stato nel cuore dei napoletani, rappresentando l’idea stessa del vino, forse perché è poco impegnativo o per l’incredibile connubio che crea con alcuni piatti tipici della nostra cucina. Eppure questo piccolo grande vino, come lo definì Mario Soldati, ha una storia antichissima.


    Furono probabilmente i greci ad impiantare le prime viti e, successivamente, i romani furono estimatori del vino qui prodotto. Il nome deriva dal praedium che la gens Grania di origine romana aveva nella zona e che ha lasciato testimonianza in un’epigrafe incisa su una tomba rinvenuta nel 1931 ai confini di Gragnano. Nel medioevo, data l’importanza che la viticoltura rivestiva in zona, quando la cattedrale di Lettere divenne diocesi, questa fu intitolata Santa Maria delle Vigne; inoltre, un detto del XVI secolo, coniato dal monsignor Molinari, declamava le proprietà taumaturgiche del Gragnano: “Si vis vivere sanum, bibe Gragnanum”. Con l’avvento di Napoleone e la nomina di Gioacchino Murat a re di Napoli, tecnici di viticoltura ed enologia furono chiamati direttamente dalla Francia, ed il Gragnano conobbe un periodo di fama in tutta la provincia. Nel 1845 il Gigante affermava: “Il vino di Gragnano, per antonomasia dette il nome a tutti i vini del napoletano, sicché bastava dir Gragnano per intendere un vino fragrante, limpido, abboccato, vocabolo che significa dolce e di vitigno, non artificiale … non vi era cantina a Napoli dove non trovasi il Gragnano. Il Gragnano è stato spesso relegato in un ruolo marginale nel mondo del vino ma, questo popolare calice ha saputo attendere il tempo di un rinnovato interesse capace com’è di strappare un sorriso al primo sorso. Dai greci a Totò, il vino di Gragnano è da sempre una delle bevande più apprezzate sulle tavole napoletane, delizia che esalta il gusto e l’aroma delle uve del Vesuvio.


    Condizioni climatiche
    Le viti di Gragnano godono dello scudo del Monte Faito che svolge funzioni di termoregolazione, e inoltre sulla benefica protezione dalla brezza marina proveniente dal golfo di Sorrento. Soprattutto nella zona più alta di Pimonte, intorno ai 4/500 metri, le escursioni termiche sono fortissime: in tal modo si ottiene facilmente un buon grado di acidità delle uve, che determinano una notevole concentrazione di sostanze polifenoliche aromatiche. Gragnano è uno dei comuni più famosi della provincia napoletana, conosciuto in tutt’Italia per le proprie produzioni enogastronomiche: si estende su un’amena convalle protetta dalla dorsale dei monti Lattari, del monte Faito e del monte Pendolo. Grazie alla sua posizione naturale, Gragnano ha un clima salutare caratterizzato da estati fresche e inverni non eccessivamente freddi né umidi.
    Gragnano, insieme a Lettere e all’altra sottozona, Sorrento, rientra nella doc Penisola Sorrentina. Il disciplinare prevede un uvaggio di Piedirosso, Aglianico e Sciascinoso, elementi della tipicità vinicola campana , con gradazione minima di 11 %, colore rosso rubino; odore vinoso (l’odore che si avverte in una cantina), intenso e fruttato; sapore frizzante, sapido, a volte con una leggera vena amabile.


    Il Gragnano rientra nella categoria dei vini frizzanti naturali. Come tale si distingue dallo spumante per la pressione atmosferica, che è solo di un’atmosfera e mezza contro le tre/tre e mezzo dello spumante. La dizione “naturale” poi, ci indica che la CO2 si sviluppa naturalmente in questo vino per effetto delle fermentazioni, e non per insufflazione separata, come avviene per il vino novello ottenuto da macerazione carbonica. Il successo di questo vino è senza dubbio dovuto al gusto piacevole e dolce, capace di esaltare l’uva utilizzata senza stravolgerne il sapore e l’aroma. E’ un vino molto versatile, ribelle, dal colore rosso rubino ,come si fa per tutti i vini spumanti, per conservare maggiore acidità, le uve vengono vendemmiate con lieve anticipo, o quanto meno non oltre la corretta maturazione fenolica, evitando cioè ogni rischio di pericolosa surmaturazione. Alcuni produttori per aumentarne l’effervescenza seguono una vecchia usanza ed aggiungono al vino un goccio di lambiccato ottenuto da uve Catalanesca. Considerato che la vendemmia avviene intorno alla metà di ottobre, il Gragnano per metà dicembre è presente sulle tavole napoletane a Natale: vino di pronta beva si presta ad accompagnare tanto la provola affumicata o il salame di Napoli. Si sposa a meraviglia con i taralli “nzogna e pepe” e certamente non disdegna di essere servito con il capitone di Natale ed è un’emozione con salsiccia e friarielli. Il primo sorso accarezza il palato con la sua effervescenza, il gusto amabile e leggermente sapido conquistano una vasta platea di fruitori, il grado alcolico lo rendono adatto al quotidiano con un’ampia versatilità di abbinamenti da una sontuosa lasagna alla carne di maiale, salsicce con contorno di friarielli, o a cibi che ancora di più si avvicinano alla sua anima popolare come la classica pizza o un tagliere di formaggi e salumi.Un vino da gustare a tavola con la pizza, come suggeriva Veronelli, e “freddo di cantina”.
    Un Gragnano d’eccezione è sicuramente quello di Adele Musella.

    https://www.winezz.it/prodotto/azienda-vitivinicola-adele-musella-macre-gragnano-penisola-sorrentina-napoli-rosso-dop/

    Ma’crè in dialetto campano rappresenta un’esclamazione di stupore.

    L’etichetta bianca della bottiglia richiama il complesso dell’Eremo di Santa Maria di Pietraspaccata, il rilievo posto sull’etichetta richiama il rosone in maiolica, elemento caratterizzante della Chiesa.

    Un vino dal carattere ben definito, fresco e piacevole perfetto da abbinare alle pietanze della tradizione popolare campana ma non solo, il suo abbinamento perfetto è la pizza napoletana.

    Da gustare ad una temperatura di 8 – 10  °C.

  • Rocca delle Macìe festeggia i 50 anni di “Lo chiamavano Trinità”

    Correva l’anno 1970 quando Italo Zingarelli produsse uno straordinario “blend” di due amatissimi attori, Terence Hill e Bud Spencer .Nelle sale cinematografie italiane usciva “Lo chiamavano Trinità…”, uno dei più grandi successi del cinema italiano di sempre capostipite di una saga che ancora oggi ha un incredibile seguito generazionale e internazionale.
    Il sequel, “Continuavano a Chiamarlo Trinità”, nel 1971, ebbe ancora più successo, e questo permise , al produttore cinematografico Italo Zingarelli, di coronare il suo grande sogno di produrre vino, fondando, nel 1973, Rocca delle Macìe, una delle realtà più belle del Chianti Classico (con 130 ettari di vigneto), e oggi con investimenti importanti anche in Maremma (con 60 ettari di vigneti), guidata dal figlio di Italo, Sergio Zingarelli, che, a WineNews, racconta: “…..in quegli anni andavano fortissimo i western un po’ più crudi e violenti, e tanti produttori romani rifiutarono il copione di “Lo Chiamavano Trinità”. Papà, invece, intuì le potenzialità di una versione più ironica e decise di produrlo”. Peraltro creando il successo di una delle coppie del cinema più longeve ed amate di sempre.” e ancora continua :”…Bud Spencer e Terence Hill avevano già lavorato insieme, ma questo fu il primo film tagliato su di loro come protagonisti. Fu un successo epocale: prima “Lo Chiamavano Trinità”, che è il quarto film italiano più visto di sempre, e poi “Continuavano a chiamarlo Trinità“.

    All’epoca i cinema erano diversi da oggi, non c’erano posti assegnati, chi prima arrivava meglio stava….”. “….Mio padre Italo si aspettava di fare un buon film, ma nessuno immaginava un successo tale, grazie al quale potè investire sul suo grande desiderio, quello di produrre vino in Toscana. E di lì a poco è nata Rocca delle Macìe, che poi negli anni noi, come seconda generazione, abbiamo perfezionato, ampliato e completato.”


    Per la celebrazione del 50° anniversario della storica pellicola, la Famiglia Zingarelli ha inaugurato la “Galleria Trinità” – con i cimeli dei set e non solo, aperta a Rocca delle Macìe, prima “movie destination” tra le colline di Castellina in Chianti. I figli Fabio, Sandra e Sergio hanno così dedicato al padre Italo un Chianti Classico Gran Selezione ‘vestito’ a cui hanno dato il nome “Lo Chiamavano Trinità…”. Un’edizione Limitata di 1970 Magnum, vertice della produzione aziendale e che rappresenta il compimento di una storia iniziata 50 anni fa, quando egli – romano di origine – si innamorò perdutamente delle colline di Castellina in Chianti.

    Ottenuto dal Sangiovese allevato nelle tenute Le Macìe e Sant’Alfonso, le prime ad essere acquistate nel 1973 da Italo Zingarelli, è un Chianti Classico Gran Selezione 2016, che porta con sé tutte le buone sensazioni di un’annata particolarmente significativa per il Gallo Nero. I suoi profumi muovono da un rigoglioso fruttato verso cenni speziati e affumicati, ad anticipare una bocca succosa, dolce e ritmata da una presente e vivace fragranza acida.

    https://www.winezz.it/prodotto/rocca-delle-macie-lo-chiamavano-trinita-chianti-classico-gran-selezione-docg-2016-con-astuccio-bottiglia-numerata/