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  • Il vino alla corte del Re,l’uva rotonda autoctona: O’ “Pallarello”

    Pallagrello o “U pallarell” nel dialetto locale, deriverebbe da Pilleolata, termine di origine latina per indicare una piccola palla a richiamare la forma minuta e perfettamente sferica degli acini ed è uno dei pochi casi di vitigno a bacca rossa e bianca.

    “Ecco primier già spillo il dolce Pallagrello che da suoi tralci stilla Monticello. Ecco n‘empio il bicchiere e mentre fuma e brilla, e tremula e zampilla, questo di buon sapere spiritoso licore, a te volgo la fronte…”. Queste sono le parole che il poeta Nicolò Giovo, nel 1729, dedicava al nobile ed antico vino Pallagrello. E’ originario della zona di Piedimonte Matese, motivo per cui fu lungo denominate proprio il “Piedimonte”. Per molti anni la sua identità fu confusa, associata al coda di Volpe o a cloni di Aglianico,.ma verso la fine del’800 l’agronomo Felice Frioio lo identificò come varietà ampelograficamente riconosciuta. Con gli anni, sia a causa di infestazione di oidio e filossera che per una minore produttività rispetto ad altre varietà, se ne era drasticamente ridotta la produzione. Oggi invece viene allevato e vinificato in purezza con ottimi risultati rientrando tra le produzioni della denominazione IGT” Terre del Volturno”. Il Pallagrello era uno dei vini preferiti dalla famiglia reale Borbonica che lo usava spesso per le grandi occasioni, preferendolo anche ai rinomati vini francesi e donandolo come omaggio agli illustri ospiti. Fu in particolare Ferdinando IV, grande appassionato di innovazioni agronomiche e molto legato al suo territorio essendo il primo sovrano della dinastia ad essere nato in Campania, a dare risalto e fama a questo importante vino facendolo diventare “il vino del re”.

    Nel 1775 infatti fece installare a Piedimonte Matese, in località Monticello una lapide celebrativa che omaggia tutt’oggi la storia e le qualità di questo vino, arrivando ad emanare un decreto che vietava a tutti il transito in zone adibite alla coltivazione di Pallagrello, pena sanzioni.

    Tuttavia l’opera che più mostra l’amore di Ferdinando IV per il vino fu la realizzazione della Vigna del Ventaglio nel real sito di San Leucio: si tratta di un imponente vigna della forma di un Ventaglio, a 10 raggi, costituito da filari ognuno di uve rappresentative delle eccellenze del regno delle 2 Sicilie: da Lipari Rosso al Pallagrello, sia rosso che bianco (denominato Piedimonte Bianco e Rosso al tempo) con una produzione di alta qualità che arrivava a 80 barili. Ogni settore era segnato con dei ceppi in travertino di Bellona con incisa la varietà li presente e l’intero progetto fu realizzato dal Leggendario Luigi Vanvitelli.

    Nello stesso periodo, altre fonti elogiarono questo vino. Il dizionario geografico del 1759 scriveva del vino di Monticello: “I vini di questa contrada sono eccellenti così bianchi come rossi, e sono de’ migliori del regno per la loro qualità e natura, come per la grata sensazione che risvegliano nel palato. Vanno sotto il nome di ‘pallarell’, e sono stimatissimi nei pranzi”. Il vino di Monticello fu preferito ai vini Vesuviani per il suo sapore deciso e fruttato, apprezzato per i grappoli dalla forma piccola e tonda (in alcuni scritti viene indicato con il nome di pilleolata, dal latino piccolo palla), vezzeggiato per il suo sapore.

    Queste caratteristiche rendono il Pallagrello uno degli omaggi che il sovrano donava ai propri ospiti, nonché uno tra i vini più titolati nei ricevimenti a Palazzo Reale. La storia del Pallagrello è quindi stata travagliata e segnata da alti e bassi, dalle tavole reali alla quasi estinzione fino alla recente riscoperta che è culminata con la reintroduzione della produzione nella reale tenuta di Carditello, abitata proprio dai Borbone, con un’ ideale reinvestitura al titolo che gli appartiene: Vino del Re.
    La produzione di Pallagrello, oggi, è circoscritta all’area dei comuni delle colline caiatine (https://mediovolturno.guideslow.it/panorami/monti-del-taburno/), dei monti Trebulani (https://mediovolturno.guideslow.it/panorami/catena-monte-maggiore-vista-dalla-torre-roccaromana/) e della Valle Alifana, dove il terreno argilloso si presta bene alla coltivazione di un vitigno delicato e molto vigoroso. Ne deriva un frutto dalle qualità fortemente spiccate, che conferiscono al vino, sia bianco che nero, proprietà organolettiche particolari, legate alle caratteristiche pedologiche e climatiche del territorio in cui viene prodotto.


    Il Pallagrello bianco ha un gradevolissimo profumo e un gusto equilibrato con un lungo finale di albicocca. Bello anche alla vista… dal colore giallo chiaro, brillante, con sfumature dorate. Il suo bouquet di aromi si apprezza maggiormente se gustato alla temperatura di 12 gradi. Per queste sue note, è un eccellente aperitivo che accompagna egregiamente tutti i tipi di antipasto e anche piatti a base di formaggi o pesce.

    Il Pallagrello Rosso è invece un vino potente e ben strutturato. Ha un aroma profondo, che sfuma verso una scia speziata di more e mirtilli, e un profumo intenso, che rimanda al sentore di frutti di bosco, pepe e cioccolato. Il colore è limpido e varia dal rubino carico al rosso porpora. Morbido e vellutato al palato, il Pallagrello Rosso dà il meglio di sé gustato alla temperatura di 18 gradi. Si abbina molto bene a piatti complessi e ricchi di sapore, come i secondi di carne o piatti di formaggi semi-stagionati. Più di altri vini, si presta meglio all’invecchiamento.

    Storia diversa ha avuto Il Casavecchia: ha origini invece poco conosciute e per questo è davvero molto interessante scoprirne le origini. Una leggenda tramandata tra i contadini ne fa risalire la scoperta in un vecchio rudere noto come “’a casa vecchia”. Lì fu rinvenuto agli inizi del ‘900 un vecchio ceppo sopravvissuto alle epidemie di oidio e fillossera dell’800, capostipite quindi dell’odierno vitigno Casavecchia. Essendo poco produttivo, spinge naturalmente verso prodotti di alta qualità. Permette di ottenere un vino vigoroso, complesso e predisposto all’invecchiamento, soprattutto se affinato in legno.

  • Il cambiamento climatico consente già di produrre due vendemmie all’anno

    Uve di Aglianico Vendemmia


    Cambiamenti climatici

    Negli ultimi decenni in gran parte delle zone viticole mondiali, l’uva da vino ha accelerato il suo avanzamento delle fasi fenologiche e questo a causa del cambiamento climatico e del conseguente innalzamento delle temperature. Capire in modo chiaro come i cambiamenti climatici influiscano sui tempi di raccolta, tuttavia, ha necessitato un esame approfondito del rapporto tra l’analisi fenologica delle uve da vino e il clima, inclusi i dati precedenti alle attività umane che hanno interferito nel sistema climatico, questo per avere anche una prospettiva a lungo termine.


    Temperature e siccità


    Lo studio, riportato il 21 marzo nella rivista Nature Climate Change, ha rilevato che le temperature più calde degli ultimi anni hanno interrotto un collegamento di quattro secoli tra vendemmie eccezionali e siccità di fine stagione. Negli ultimi decenni, infatti (1981-2007), l’innalzamento delle temperature ha provocato un anticipo della vendemmia di circa 2 settimane, con una drastica trasformazione del rapporto tra i tempi di raccolta e vendemmie eccezionali. Storicamente, infatti, le temperature estive elevate in Europa occidentale – che acceleravano la maturazione della frutta – si sono sempre verificate in relazione a temperature estreme e a condizioni di siccità: tale rapporto, siccità/temperatura, è oggi compromesso: il riscaldamento è sempre più legato ai gas serra (conseguenza dell’intervento dell’uomo) che anche in assenza di siccità ha favorito l’innalzarsi delle temperature.


    I tempi di maturazione dell’uva

    Il cambiamento climatico ha fondamentalmente alterato il processo di maturazione dell’uva, questo comporta vendemmie anticipate in gran parte dei Paesi europei con importanti implicazioni nella gestione della viticoltura e qualità del vino. La ricerca, condotta dallo scienziato del clima Benjamin I. Cook (NASA Goddard Institute for Space Studies e Lamont-Doherty Earth Observatory – Division of Ocean and Climate Physics – New York) e da Elizabeth M. Wolkovich (Arnold Arboretum, Boston e Organismic and Evolutionary Biology -Harvard University, Cambridge),ha rilevato che una volta le vendemmie anticipate erano associate con vini di alta qualità; in gran parte della Francia e della Svizzera, i migliori anni erano quelli con piogge primaverili abbondanti seguiti da estati calde e siccità di fine stagione, il che favoriva vendemmie circa una settimana prima del solito. Ma ,con le mutazioni climatiche degli ultimi 35 anni si è avuto un cambiamento drammatico, con periodi di siccità non più favorevolmente correlati per una vendemmia anticipata. “Dopo il 1980, i segnali di siccità favorevoli scompaiono” spiega il dottor Cook “c’è stato un cambiamento fondamentale nel clima su larga scala e nel quale le attività umane hanno giocato un ruolo importante”. I ricercatori hanno analizzato 400 anni di dati relativi al vino provenienti dall’Europa occidentale. L’anno di vendemmia è stato associato alle tendenze del clima, avvalendosi anche delle informazioni sui cambiamenti di qualità sulla base dei rating a lungo termine delle annate di Bordeaux e Borgogna. Lo studio ha fatto emergere anche previsioni per la Cina, la Tasmania e il Canada e la Malesia che potrebbero essere in futuro i nuovi territori dove coltivare uve pinot nero visto che in Borgogna non sarà più possibile. Il Bordeaux perderà il cabernet sauvignon e il merlot e lo Champagne cederà la sue note frizzanti al sud dell’Inghilterra.

    E in Italia? Anche il nostro Paese non verrà risparmiato dal cambiamento climatico, i cui effetti sono già databili al 1998, con un anticipo medio della fioritura di otto-dieci giorni; un periodo di fioritura abbreviato e quindi di un anticipo dell’invaiatura. La conseguenza inoltre è anche la produzione di vini mediamente più alcolici che tra l’altro non rispondono a quel che oggi chiede il mercato. In Trentino, nella Val di Cembra, intanto, per mantenere freschezza e acidità ai vini base spumante, le uve chardonnay e pinot nero vengono spostate fino a quota 600 metri.


    Come ricavarne un vantaggio

    Gli effetti del cambiamento climatico preoccupano sia i viticoltori che i ricercatori. Secondo un rapporto svolto da Martínez de Toda pubblicato due anni fa, le attuali tecniche di gestione della vegetazione del vigneto sono “insufficienti” per ritardare la maturazione delle uve e con essa la vendemmia di almeno due o tre mesi in zone vitivinicolo con temperature estremamente calde. E’ necessaria una forzatura di un nuovo sviluppo della vite, che è stata proposta anche come una scoperta interessante nella lotta contro il riscaldamento globale. È quello che Martínez de Toda ha ora sviluppato.
    “…….Il cambiamento climatico consente di produrre due vendemmie all’anno“: è la sorprendente conclusione di una ricerca condotta in Spagna e pubblicata su “Vitis Journal of Grapevine Research”. La ricerca è stata condotta dal viticoltore, agronomo, professore di viticoltura presso l’Università di La Rioja e ricercatore presso l’Istituto di scienze della vite e del vino (ICVV)Fernando Martínez de Toda, che spiega che ci sarebbero tra 35 e 37 giorni di differenza nelle date di maturazione e vendemmia. Il metodo proposto da Martínez de Toda, consiste nell’accorciare i tralci in crescita a diversi nodi per forzare la ricrescita della vite. Per forzare il germogliamento, la ricrescita dei germogli e la raccolta, è necessario eliminare la fonte di inibizione e per questo vengono eliminati i germogli laterali, le foglie e i grappoli primari, se esistono. Per mezzo di un’adeguata esecuzione della tecnica di forzatura è possibile ottenere un secondo raccolto dei germogli forzati, che viene aggiunto al primo raccolto dei rami principali, secondo il ricercatore. Il secondo raccolto rappresenta circa il 30% del raccolto primario, che è di circa 1,2 chilogrammi per ceppo. In relazione al controllo non forzato, il raccolto primario matura circa 13 o 15 giorni dopo e il raccolto secondario tra 35 e 37 giorni dopo. Secondo i risultati della ricerca, la seconda raccolta produce grappoli e bacche più piccoli, con pH più basso, maggiore acidità, più alti acidi malico e tartarico e antociani molto più alti rispetto al primario. Inoltre, consente alle uve forzate di maturare molto in condizioni termiche più basse, il che è considerato interessante nelle regioni calde e con l’attuale situazione di riscaldamento globale. Lo svantaggio principale della tecnica di forzare la ricrescita della vite è la perdita di prestazioni. Per evitarlo e non eliminare i grappoli primari già formati nei germogli principali, Martínez de Toda consiglia di forzare lo sviluppo delle gemme del quinto e sesto nodo, ma mantenendo i grappoli dei germogli principali. In questo modo, le prestazioni delle gemme forzate verrebbero aggiunte alla prestazione normale o primaria dei germogli. Propone pertanto tecniche di gestione della vegetazione del vigneto per mitigare gli effetti delle alte temperature e del riscaldamento globale. Il suo studio inoltre si concentra sulle tecniche di gestione della vegetazione,considerandole più interessanti perché possono essere applicate su vigneti esistenti, senza la necessità di ricorrere a nuovi: in pratica consiste nel ritardardare la maturazione dell’uva,poiché l’effetto negativo fondamentale e più chiaro delle alte temperature è quello di causare un avanzamento nella sua maturazione. Tale tecnica ha lo scopo di ritardare la data della vendemmia in modo da combinarla con condizioni ambientali più fresche.

  • Redo: un “giovane di razza”

    Lapio

    Baciata dai raggi del sole, all’ombra del monte Tuoro, sorge TENUTA SCUOTTO. Azienda Agricola votata alla produzione dell’eccellenza dei VINI: sorge nel cuore dell’Irpinia e proprio il territorio ha ispirato il capostipite della famiglia Scuotto, il sig. Edoardo a porre le basi di quella che oggi è una delle realtà vitivinicole più interessanti della Campania. Nel 2008 nasce l’azienda Tenuta Scuotto, dove un team di professionisti, insieme a scelte imprenditoriali coraggiose, ha dato vita ad un progetto importante nel territorio del Lapio. Lo spirito è stato fin da subito quello di presentarsi al pubblico degli appassionati con prodotti “differenti”, ovvero prodotti che fossero l’espressione più fedele del terroir, ma che allo stesso tempo ne restituissero, in degustazione, un’identità unica. Ogni aspetto della produzione Scuotto, infatti, è stato improntato al rispetto per il territorio, elemento fondamentale per chi vuole mantenere il legame con il territorio, ma evitando ogni forma di omologazione. Questo non significa rifiutare la propria identità, ma dare a quest’ultima caratteristiche proprie. La tenuta Scuotto pone al centro della propria filosofia, innanzitutto, quantità limitate per garantire la massima cura su ogni prodotto, poi una vendemmia selettiva eseguita rigorosamente a mano.

    Queste sono solo alcune delle scelte poste alla base della conduzione aziendale.La sua produzione annuale si aggira tra le 60.000 e le 70.000 bottiglie. Tra i vini si ricordano: Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Falanghina, “Oi nì”, Taurasi D.o.c.g., REDO, Stilla Maris, Malgrè. Rcevono il prestigioso riconoscimennto da Decanter nel 2020:
    Fiano di Avellino DOC 2018
    Oi nì I.G.P.

    Ma la famiglia Scuotto non può essere riconosciuta solo per i suoi “bianchi: sono produttori di altrettanti ottimi vini rossi. L’ultimo nato è “Redo”, ottenuto anch’esso da uve di aglianico in purezza, ma la particolarità è che è un vino che nasce già pronto: mettete l’idea dell’associazione “aglianico giovane = austero” da parte, perchè verrete stupiti dalla sua armonia. E’ affiniato per 8 mesi in barrique e completa la sua trasformazione con una fermetazione malolattica. Anche in questo caso le bottiglie prodotte sono davvero poche, circa 1200.

    Nasce da uve 100% Aglianico di Taurasi: la sua produzione avviene attraverso raccolta e selezione dei grappoli più maturi, diraspatura senza pigiatura, fermentazione con lieviti indigeni a temperatura di 22/25 gradi per circa 18 giorni, alla svinatura il vino viene trasferito direttamente in barrique nuove, dove finisce la fermentazione e svolge la malolattica. Dopo circa 8 mesi in legno, viene imbottigliato senza filtrazione e né refrigerazione. L’affinamento avviene per tre mesi in bottiglia. Alla vista questo vino si presenta di color rosso rubino intenso con riflessi violacei. Avvolgente con una lunga persistenza aromatica è un Aglianico poderoso pronto a dare il suo contribuito alla nobile causa, un VINO di struttura che conservasse la piacevolezza olfattiva e gustativa tipici della GIOVINEZZA. Una prontezza di beva che rende il sorso pieno, voluminoso, agile al punto da favorirne il riassaggio. Il vino, giovane, si caratterizza proprio per la sua morbidezza e la sua piacevolezza, tanto che non potrete fare a meno di berne ancora. E’ di complemento a formaggi stagionati, carni rosse, arrosti, selvaggina alla brace, da il meglio di sé con una tagliata di manzo.

    Le mie considerazioni: l’olfatto apre ad una aggraziata espressività di profumi che richiamano la mora, la ciliegia, i frutti a bacca scura, le erbe aromatiche, morbide spezie e delicati cenni balsamici. Al palato è equilibrato e pieno, di buon corpo e tannicità, freschezza delicata e finale balsamico con tannini maturi e un sorso morbido e armonioso dal frutto ricco e intenso. Il finale e lungo, persistente, fresco ed equilibrato. Il Redo di Tenuta Scuotto è un Vino perfetto da bere subito, ma può evolvere bene se tenuto a riposare in cantina, può riposare tranquillamente in cantina per 4-5 anni.

  • Dal mare alla vigna e dalla vigna al mare… “Vigna di Lume” un grande vino che sa di mare

    Un vino che sa si mare e tradizione, di colline e grotte di tufo. Un bianco che ricorda le sue origini, tra i vigneti eroici del Mediterraneo, quelli abbarbicati sui territori più impervi dell’isola d’Ischia, che raggiungono per la spremitura antiche cantine scavate nella roccia per poi giungere, rigorosamente via mare, a bordo di barchette in legno, nelle cantine collinari della più grande delle isole dell’arcipelago flegreo, la cantina di Campagnano, passando dal borgo di Ischia Ponte. Il prodotto realizzato sull’isola d’Ischia è stato valutato dalla giuria internazionale con un punteggio di 96 su 100 come migliore vino bianco della penisola.

    Prodotto con sole uve di tipo Biancolella deve il suo singolare nome a un particolare costone di roccia che domina la vigna dove si produce il pregevole nettare di Bacco e che ha suggerito agli occhi di chi è impegnato nella cura delle vigne e alle lunghe sessioni di vendemmia, la forma di antiche torce e lumi: ” O Lummo.” Ormai non esiste più, purtroppo un’azienda romana, costruttrice di mattoni, lo polverizzò definitivamente nell’immediato dopoguerra, facendolo esplodere. Buttato giù solo perché dava fastidio. Uno dei tanti scempi perpetrati su quest’isola meravigliosa. 

    Sono proprio questi costoni impervi e alcuni con pendenze del 50% rivolti sul mare cristallino che circonda l’isola, che si raccolgono le uve raccolte da Antonio, patriarca di una famiglia che si occupa di vinificazione da secoli.

    Vigna del Lume presenta un piacevole colore giallo paglierino. Il suo profumo richiama da subito tutte le sfumature che il sole e la terra vulcanica donano, note di frutta quasi matura di banana e pera, con sfumature floreali, in aggiunta a talco, burro e mandorla amara. Al palato è fresco, leggermente sapito ed elegantemente delicato, in grado di trasmettere tutta l’energia del sole e della terra dei suoi vigneti: il vino “dal sapore antico”, con i suoi sentori mediterranei di salvia e finocchietto, di ginestra e di frutta matura di albicocca e pesca. A ricordo del territorio e della ricca vegetazione circostante sono le sfumature minerali, lunghe e persistenti, che si abbracciano ai cenni mandorlati tipici del vitigno, a note agrumate e tropicali. Una grande struttura, un sapore pieno e corposo, dal giusto equilibrio in acidità che lascia in bocca gradevolissimi ricordi salmastri.

    Personalmente lo berrei intorno ai 10°C, in un calice di media ampiezza, sfruttando l’acidità, la sapidità e la lunghezza aromatica per bilanciare un piatto di Gamberi o un buon piatto di spaghetti alle vongole esaltando così al meglio le sue qualità.

    Nelle due ultime edizioni di Vinitaly 2018 / 2019, a Verona, è stato riconosciuto come il miglior vino bianco d’Italia dell’anno.

    Antonio Mazzella Ischia Bianco “Vigna del Lume” Biancolella DOC 2019

  • I love Falernum

    Il vino Falernum ha origini storiche antichissime. Fu lo storico romano Tito Livio, alla fine dell’età repubblicana, tra i primi a parlarne e a delimitarne il territorio – avente forma triangolare –con base sul corso del fiume Savone e vertice la cima del Monte Massico. Furono i Romani che, avvalendosi di alcune tribù , genericamente denominate “tribù Falerine”, ripresero le tradizioni vitivinicole Magno- Greche, Etrusche ed Autoctone Campane, sviluppando un rinomato distretto vinicolo. Furono create Tre tipologie di vino Falerno : CAUCINUM , vino proveniente da vigne in alta collina, FAUSTIANUM , vino proveniente dalle migliori colline sia per esposizione , pendenza dei terreni che per varietà dei suoli, e FALERNUM , vino generico proveniente da terreni pianeggianti.


    Per anni il ” Faustianum vinum “,restò la tipologia più pregiata , ricercata e costosa.. ma fu un vero e proprio boom il Falernum, grazie proprio ai Romani che scelsero la Ager Falernus come zona per la villeggiatura modaiola del tempo: fonti storiche ritracciano l’esistenza di possedimenti territoriali dei VIP dell’epoca: politici, personaggi pubblici, scrittori tra cui Orazio e Cicerone, così come oggi personaggi famosi come stilisti, cantanti, registi e attori acquistano casolari o antiche dimore con vigna in zone a indiscussa vocazione vitivinicola (e.g. Sting in Toscana, Gerard Depardieu in Sicilia, Antonio Banderas in Ribera del Duero in Spagna).. I ritrovamenti di anfore nelle prossimità di vari porti del Mediterraneo, in Italia, Egitto, Francia è un indice dell’importanza del ruolo del vinum Falernum nell’economia marittima del Mondo Antico. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e in epoca Medioevale, il Falernum perde l’antico prestigio.In questo lungo periodo vari autori , storici , letterati latini hanno parlato del Falerno. Macrobio nei Saturnali ammise che si conservava fino a quarant’anni e che si usava nelle cene di lusso. Petronio nel Satyricon ci ha tramandato che si conserva fino a 100 anni per cui Marziale lo chiamò “immortale” e Plinio addirittura diceva che i medici ne proibivano l’abuso. Orazio, Cicerone e Faustiano lo producevano e ne facevano sfoggio durante le loro cene. Virgilio lo descrive come miglior vino al mondo. Ritroviamo parziale ritorno alla notorietà in pieno Rinascimento (XVI secolo), quando sotto il nome di Fistignano “Fastignano” fu elogiato da Papa Paolo III Farnese.


    E’ proprio il prestigio del Fastignano a dar origine al Campantuono dell’Azienda Gennaro Papa. L’Azienda Agricola Gennaro Papa  è attualmente  condotta da Gennaro e Antonio Papa, si avvale della collaborazione esterna dell’enologo umbro Maurilio Chioccia. La Vigna, ormai di trent’anni, è sita in località Campantuono in zona collinare: nasce dai vigneti storici dunque e rappresenta un’attenta selezione solo di quei vigneti e di una vigna che rappresenta il cru aziendale. E’ un vino autorevole, l’alcol svetta verso i 17 gradi, ma è la sua anima a definirlo, perché è il Falerno che segue di più la tradizione. Il vigneto è collocato nella parte più alta della tenuta di Falciano chiamata appunto “Campo di Antonio”, è completamente piantato a guyot , con una resa in uva che difficilmente supera il chilo per pianta. E’ un vino decisamente importante, delinea di se stesso un profilo altisonante già al primo approccio: il colore è nero, profondo, lasciandolo attraversare dalla poca luce che ne pervade la profondità si riesce ad intuire appena qualche sensazione viola inchiostro. E’ compatto e consistente. Il primo naso è un effluvio di sentori floreali e fruttati maturi che inseguono e sono seguiti costantemente da note eteree, dolci sensazioni speziate e note balsamiche sottili ed eleganti. E’ dapprima succoso di mora e di visciola, profuso di cannella, tracce iodate e sul finale, dolcissimo, si offre con sentori di cioccolato e liquerizia. In bocca è secco, potente, il frutto è quasi masticabile, acidità, tannino e glicerina sono ben legati, fusi ad unisono regalando una beva decisa ma sostenibile, almeno sino al terzo bicchiere. Solo sul finale di bocca la nota alcolica ritorna dirompente, non senza frutto, non senza, quindi, quella fondamentale corrispondenza gusto-olfattiva, leggi piacevolezza, che a vini come questi non deve mai mancare per non risultare stucchevole e stancante. Il risultato è un originalissimo equilibrio, tra meditazione esistenziale e definizione del paesaggio, una meditazione appassionata, magniloquente, che come movimento incessante e ripetuto del mare, poggia sulla costa aspra e rocciosa i segni di una vita, la vite appunto!

  • Il “sangue di drago”

    La storia che vi raccontiamo è quella di uno dei più noti vitigni autoctoni prodotti in Trentino Alto Adige, terra di grandi vini: il Teroldego Rotaliano detto anche “Sangue di Drago”, un vino che per il suo soprannome profuma di leggenda, meglio e più di una fiction: un vino con una storia degna di Game of Thrones, che per vostra fortuna potete però oggi gustare anche senza ripercorrere per forza le gesta di un temerario personaggio dei Sette Regni. Quella di questo vino è una vera e propria leggenda che si potrebbe raccontare come una “favola della buonanotte”. Secondo il mito, infatti, la sua nascita si lega all’uccisione di un drago “Il Basilisco” per mano del cavaliere Firmian nelle grotte dell’eremo di Castel San Gottardo che sovrasta il Comune di Mezzocorona. Stando alla storia fu lui, con un abile stratagemma, a liberare dalla paura gli abitanti.

    Il conte Firmian affrontò il drago con uno specchio e un secchio di latte: il drago si accorse subito del secchio di latte e iniziò a berlo con gusto, poi alzò la testa e fu allora che vide… un altro drago! Identico a se stesso, in tutto e per tutto. Iniziò a fischiare, a muoversi, scuotersi, girare. Il suo doppio riflesso eseguiva esattamente tutte le mosse che lui proponeva. Il conte approfittò quindi del momento di distrazione della bestia, balzò fuori dal suo nascondiglio e, con tutta la forza che aveva in corpo, conficcò la sua spada nel ventre, il solo punto vulnerabile del mostro. Trafisse il drago con una lancia uccidendolo. Lo portò quindi in trofeo nella città e, trascinandolo, il sangue del mostro che tanto aveva terrorizzato il luogo, lasciò una scia da cui nacquero la vite e quindi i grappoli di un vino che ne ha conservato la potenza. Un’origine meno mitologica vede il suo nome deriviato da Tirol de Gold, Tiroler Gold ovvero l’oro del Tirolo, vino reso celebre dall’imperatore Francesco d’Austria, che tanto apprezzava questo prodotto anche se già dal medioevo si parla di uva Teroldola. Leggenda a parte, la storia invece afferma che già nel 1300, all’epoca del Concilio di Trento, ai cardinali riuniti fosse servito questo vino rosso rubino, corposo e morbido al tempo stesso; ritroviamo poi il Teroldego come fedele compagno di Francesco Giuseppe, che non se lo faceva mai mancare anche nei suoi lunghi spostamenti da un angolo all’altro dell’impero asburgico. Lo stretto legame con la storia si traduce, dicono gli estimatori, anche nella sua longevità, riuscendo a esprimere il meglio di sé anche dopo aver passato una decade in cantina. Fra i tanti vini rossi trentini, il Teroldego Rotaliano DOC è il più rinomato, tanto da essere definito “vino principe del Trentino”.

    Ci piacerebbe dirvi che sorseggiandolo vi darà la stessa forza e lo stesso coraggio dell’impavido cavaliere Firmian che sconfigge il drago, ma…. sorseggiandolo sicuramente vi darà calore e piacere.

  • È il momento di sognare, ma il Fiano dei due Sognatori è già una certezza.

    E’ a Montefalcione, più precisamente a Contrada Carrani, in un contesto collinare dal suolo calcareo ed argilloso con contaminazioni vulcaniche legate alle eruzioni del Vesuvio.
    Le ideali condizioni climatiche sono quelle ideali si combinano con 3 ingredienti fondamentali: delle vigne di proprietà, la passione per il vino ed il sogno di poter realizzare qualcosa di importante. È così che Marianna Mazzariello ed Adriano Tartaglia, rispettivamente marito e moglie, hanno deciso di scommettere sulla loro terra natia con un progetto molto ambizioso, e che guarda dritto al futuro: è così che è nata Tenuta Madre!
    La forma esagonale del logo dell’azienda richiama la pianta del loro vigneto, ormai trentennale, in parte produttivo ed in parte in riqualificazione.
    Si è iniziato così a lavorare sulla porzione di 1,20 ha coltivata a Fiano e su quella di 0,50 ha di Aglianico (un Taurasi che dovrebbe aver luce nei prossimi due anni), ma già sono in corso dei lavori per portare il vigneto di Fiano ad 1,72 ha, e di aggiungere un altro mezzo ettaro a quello di Aglianico, con l’obbiettivo di produrre 3 Cru: 2 di Fiano ed 1 Taurasi. A questo si aggiunge il talento di un Enologo ed Agronomo campano che ha saputo raccogliere questa nuova sfida con la professionalità che lo contraddistingue, Arturo Erbaggio.
    Messi assieme tutti i pezzi del puzzle, con la vendemmia 2019 è nato il Fiano di Avellino I Sognatori, il cui nome fa chiaro riferimento a questa nuova avventura extra-professionale di Marianna ed Adriano.
    Si tratta di un Fiano in purezza vinificato per l’80% in acciaio ed il 20% in barrique, dove il vino è rimasto a maturare per 7 mesi prima che le 3933 bottiglie prodotte venissero imbottigliate il 12 Giugno scorso. Il tutto si compie attraverso un accurato lavoro in vigna che culmina nella vendemmia, rigorosamente manuale, seguita da una pressatura soffice; la fermentazione avviene a basse temperature per l’80% in inox e 20% in barrique di rovere e il vino continua poi ad affinare per circa 7 mesi con bâtonnage periodici, che gli conferiranno struttura, corpo e longevità.
    Al naso si presenta con grande impatto ed eleganza, profuma di mela golden, di fiori di tiglio, di pompelmo e di erbette di montagna, tra cui emergono dei lievi tocchi di miele di acacia e nocciola ancora fresca. La perfetta dosatura del legno risulta appena percettibile aggiungendo dei sottili profumi tostati. In bocca ha volume, pienezza, ma è fresco e dinamico, con una sottile salinità e un accenno di pepe bianco; chiude con una lunga persistenza. Lussureggiante, profondo, dinamico, pulito, di grandissima energia, avvolgente e freschissimo, la piccola massa che è passata in barrique apporta una timida carezza al palato, immediatamente scalzata dalla grande freschezza agrumata e dalla sapidità, che rendono la beva molto interessante. Infine la sensazione erbacea ritorna predominante, alternandosi ai toni fruttati in un lungo intreccio aromatico, che ci accompagna ben oltre l’assaggio.
    Si abbina a crostacei e grigliate di pesce, fritture a base di pesce. Da urlo con una zuppa di vongole.
    Un abbinamento consigliato e provato personalmente è con dei buoni gamberoni rossi su una vellutata di ceci. Tenuta Madre I Sognatori Fiano Di Avellino DOCG 2019

  • Più caro o meno caro…. questo è il problema!

    Vi è mai capitato da “profani” e non da cultori del vino di trovarvi davanti ad uno scaffale per acquistare un bottiglia e non sapete quale scegliere ? Il dilemma sorge soprattutto se siete invitati a casa di amici o dovete fare un regalo e non volete fare una “figuraccia”…… l’occhio cade sempre su quella più costosa e questo perchè, secondo voi , il prezzo è sinonimo di qualità !
    Ebbene, non è sempre così!

    A confermarlo è un nuovo studio pubblicato su Science Direct .
    La ricerca, che è intitolata “Le informazioni sul prezzo influenzano l’esperienza soggettiva sul vino”, si basa su di un esperimento realizzato dall’Università di Basilea al quale hanno partecipato 140 degustatori. Gli psicologi hanno dato volontariamente informazioni alterate su alcuni vini assaggiati alla cieca che avevano un prezzo compreso tra 10 e 70 €. Il risultato ha dato degli esiti a dir poco bizzarri! In parole povere, i partecipanti hanno preferito, in media, vini economici, spacciati per costosi, a vini realmente costosi. Il vino più economico di tutti veniva descritto come più piacevole quando veniva dichiarato un prezzo di quattro volte superiore a quello reale , si legge nello studio , “…..nessun effetto particolare, invece, è stato riscontrato quando abbiamo presentato un vino costoso e abbiamo detto che costava un quarto del suo prezzo reale…”. Non è chiaro quale sia il meccanismo alla base del default cognitivo, ma precedenti ricerche hanno evidenziato la possibilità che, di fronte ad un vino “costoso”, si attivi nel nostro cervello un sistema di “reward and motivation” (ricompensa e motivazione) che altera la nostra percezione in modo tale da far combaciare l’esperienza estetica con le aspettative. L’ipotesi è che a questo default si possa ovviare parzialmente o del tutto con l’allenamento, ma non è possibile dirlo con certezza, perché la maggior parte degli studi condotti in questo ambito hanno coinvolto esclusivamente persone non esperte. Certo è, in ogni caso, che esperimenti di questo genere sconfessano in larga parte le teorie sull’oggettività del gusto, perché mettono in luce il potere che i condizionamenti esterni possono avere sulla percezione. ‘ In vino veritas’ dicevano gli antichi , ma l’esperienza soggettiva sembra strettamente legata alle informazioni che vengono date.

    Tornado a noi….. quando comprate una bottiglia di vino non badate tanto al prezzo ma fate altre valutazioni ……da dove viene il prodotto, la cantina , l’ uvaggio ….

  • Vigneti galleggianti… oltre i limiti tradizionalmente concepibili

    courtesìa de
    DANIELA DAVILA

    Hai mai sentito parlare di “vigneti galleggianti“?
    Se non ne avete mai sentito parlare, oggi vi parlerò di uno dei vigneti più esotici al mondo.

    Parliamo dei vigneti galleggianti della Cantina Siam Winery
    Siam Winery è stata fondata nel 1982 da Chalerm Yoovidhya, uno degli uomini più ricchi della Thailandia, creatore della famosa bevanda energetica Red Bull. (Síam è il nome con cui la Thailandia era precedentemente conosciuta). Questo sito si trova nel delta del Chao Phraya, 60 km a sud-ovest di Bangkok e i suoi vigneti sono piantati tra i fiumi Tha Chin e Mae Klong. In questa zona esistono dei veri e propri vigneti galleggianti “esotici”, dove le uve raccolte vengono trasportate in piccole barche attraverso canali tra i filari di vigneti, simile proprio alle immagini che i gondolieri ci danno attraverso i canali di Venezia. A rendere la coltivazione e la vendemmia più “spumeggiante” (per restare in tema) conigli, cobra reale, vipera a catena, green mamba e scolopendre (la scolopendra gigantea è sita proprio in questa regione) scimmie, lucertole e galline selvatiche fanno da contorno ai vigneti.
    La Thailandia è forse meglio conosciuta per la sua birra, i marchi Chang e Singha sono conosciuti in tutto il mondo, tuttavia, l’industria vinicola sta iniziando a guadagnare terreno in questo paese. Situata all’interno dei tropici, questa nazione spinge la vinificazione oltre i confini ambientali tradizionalmente concepiti. Le caratteristiche climatiche sembrerebbero scoraggiare la produzione: fa troppo caldo, troppo umido, consistenti precipitazioni annuali fanno marcire le radici, per non parlare delle malattie causate dai funghi che prosperano in questo luogo, così come la mancanza di variazioni stagionali e le temperature diurne sono sfide per la produzione di vino di qualità. Questo paese non ha mai avuto una tradizione del vino, del resto la Thailandia è entrata nel mondo del vino molto di recente: il primo raccolto commerciale è stato solo nel 1995. Ma proprio la caratteristica del clima della zona permette ai viticoltori due raccolti all’anno, una in inverno (da dicembre a marzo) e una in estate (da giugno a settembre). Questa cantina produce varietà tradizionali locali come la Malaga Bianca e il Pok Dum Rosso,così come Colombard e Chenin Blanc, Sangiovese, Rondo, Shiraz, Muscat, Dornfelder, Merlot, Cabernet Sauvignon e Sauvignon Blanc, che prosperano nelle diverse regioni vinicole del paese. Le aree viticole della Thailandia sono concentrate nel nord-est del paese. Sono valli circondate da montagne dove i suoli sono poveri di materia organica, ma argillosi, calcare e granitici. L’area del delta del Chao Phraya, dove si trova la cantina proprietaria di questi vigneti, è la regione vinicola più meridionale del paese, ad un’altezza di 5 metri sul livello del mare e temperature diurne tra i 18 e i 22 gradi.
    Per chi fosse interessato riporto il sito ufficiale della cantina.
    https://www.siamwinery.com/en
    Ringrazio Daniela G. Dávila, autrice dell’articolo.

  • Vino in lattina, pronti al nuovo modo di bere vino?

    Il vino in lat­ti­na è un pro­dot­to che per molti wine lo­vers ita­lia­ni per ora è an­co­ra dif­fi­ci­le da ac­cet­ta­re ma che sta pren­den­do sem­pre più piede sul mer­ca­to mon­dia­le. In un mercato come quello del vino, che a livello globale, più che di grandi rivoluzioni vive di piccoli aggiustamenti o meglio arrangiamenti, la vera novità degli ultimi anni è il vino in lattina. Una nicchia, per ora, che è ancora ben lontana dalla massa critica di qualsiasi altro formato, dalla bottiglia al bag-in-box, ma ha i suoi punti a favore: per il consumatore, è semplice e leggera da trasportare, e si adatta alla perfezione alle occasioni di consumo fuori casa. Non è un caso, ma semmai una conseguenza, che i più affascinati dal vino in lattina siano i più giovani (25-44 anni), ossia il target di chi passa più tempo tra locali e bar. L’interesse tra i bevitori abituali di vino nel resto del mondo è comunque cresciuto in maniera sensibile; se nel 2017 solo il 21% dei britannici ed il 33% degli americani prendeva in considerazione l’idea di comprare vino in lattina, la percentuale nel 2020 sale rispettivamente al 32% e al 42%, segno che, piano piano, il vino in lattina non è più un tabù, almeno tra i più giovani. Non è da sottovalutare nemmeno per i negozianti i quali hanno la possibilità di stoccare volumi importanti in minore spazio, usando un materiale riciclabile e leggero, in un packaging decisamente più moderno e spesso più attrattivo della classica bottiglia. Insomma il vino in lattina ha tutte le carte per acquisire la sua fetta di mercato, spetta ora ai produttori che strategia di vendita sviluppare: il vino in lattina non è lo stesso vino semplicemente per il fatto che è in una lattina: la stessa bibita americana più famosa al mondo bevuta in lattina e in vetro ha un diverso sapore.Pertanto considerati i fattori che possono influire sulla qualità del vino in lattina, i produttori dovrebbero valutare quali tipi di vino provare e poi proporli in questo formato. Un altro aspetto da considerare dal punto di vista del consumatore è che in genere quest’ultimo consuma bevande frizzanti in lattina, servite fredde, e questo si traduce in una maggiore apertura per i vini rosati e spumantizzati in lattina. Ma Bisogna seguire l’onda, perché i consumatori sono sempre più aperti alla possibilità di accettare un prodotto in lattina, ma sempre di un certo livello. I marchi del vino non devono avere paura di vedere compromessa la propria immagine: con la pandemia la fiducia nei brand, almeno in quelli più popolari ed amati, ha raggiunto livelli altissimi, per cui se un marchio del vino deciderà di buttarsi sul mercato del vino in lattina difficilmente subirà un impatto negativo, al contrario. Attenzione anche al canale distributivo, perché il vino in lattina è legato ad un consumo e ad un acquisto estemporaneo: ad esempio al banco refrigerato di un supermercato come anche in un distributore self-service avendo così con ogni probabilità maggiore successo di vendita che in un’enoteca. Ultimo ma non meno importante il suo grado alcolico: il vino in lattina è un’ottima strada verso la tendenza del basso contenuto alcolico, specie se lo si immagina miscelato con altri prodotti, scendendo facilmente a 5 gradi, come la stragrande maggioranza dei “Ready-To-Drink”.


    E voi… siete pronti a bere vino in lattina?